Il Veneto ha una territorialità atipica rispetto alla gran parte delle regioni italiane: quella di essere un territorio di antica antropizzazione densamente irrorato da vie d’acqua, un delicato equilibrio idrogeomorfologico che si è mantenuto relativamente stabile nel corso dei millenni grazie al rapporto mai interrotto tra uomo e fiume. La complessità geomorfologica e storico-culturale del territorio veneto è il prodotto di questa coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente naturale. Nell’Italia del secondo dopoguerra sfigurata dalla cementificazione e dalle distorsioni sociali conseguenti al “miracolo economico”, questo processo interattivo si è improvvisamente interrotto.
Anche nel Veneto, le periferie delle città si sono riempite di squallidi palazzoni pieni di appartamenti, che faranno passare alla storia gli anni ‘60 come il decennio più disastroso della storia dell’urbanizzazione. Da allora settori sempre più consistenti della popolazione assistono allo stravolgimento ambientale con un forte senso di disagio e angoscia. Siamo ormai tutti convinti che l’accumularsi attorno ai centri urbani di dense e caotiche nebulose insediative sia una delle più sentite problematiche rilevabili nelle geografie del mondo urbanizzato. «Se fino a un recente passato le azioni di protesta e il dibattito politico erano condotte da associazioni a livello nazionale (nel caso italiano si pensi a Italia Nostra, a Legambiente e al Fondo per l’Ambiente Italiano) e internazionale (WWF, Green Peace), oggi è sempre più diffuso un coinvolgimento diretto di gruppi e movimenti cittadini, accomunati dalla paura per le minacce ambientali, che organizzano iniziative civiche. Paure, disagi esistenziali, perdita di serenità e depressione sono i principali moventi che spingono
La conclamata perdita di qualità territoriale penalizza il valore dei nostri mondi di vita, dove il fitto tessuto delle ville, come pure dei fiumi, boschi e paesaggi agrari, ha subito gli effetti della dilatazione abnorme della città dell’economia. I centri urbani, prima chiaramente riconoscibili, ora si saldano in una continuità confusa e senza limiti. L’esito visibile di questa cancellazione della memoria collettiva è, come scrive Zigmunt Bauman, l’estensione del «deserto creato dall’uomo», un deserto «che si estende oltre la portata del progetto e della capacità di ciascuno in particolare» (Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione).
Nel Veneto del miracolo economico la città è cresciuta allontanando sempre più la campagna che si è così trasformata in nuove periferie e spazi incolti. Questo processo è destinato a continuare e ad accrescere le contraddizioni tra una città sempre più periferia e una campagna sempre più urbanizzata. Una delle principali vittime di questo “olocausto”, dovuto al prepotente ingresso di altre economie, di altra mobilità, di altre percezioni, è proprio il paesaggio veneto, ossia i luoghi che videro l’azione superba della progettazione palladiana, autentica firma paesaggistica che fino alla metà degli anni ’50 del secolo scorso connotava ancora uno dei paesaggi agrari più belli della terra, distribuiti sopra la falda acquifera tra le più ricche d’Europa (Vallerani, Italia desnuda). La dissoluzione fisica e affettiva dei nostri contesti di vita è destinata a proseguire fino a che non ci saremo dotati degli strumenti culturali idonei a fronteggiarla e a contrastarla.
Nell’ex paesaggio palladiano, lo straordinario successo del modello economico, che ha trasformato in pochi decenni una regione di poveri emigranti in uno tra i più opulenti territori del pianeta, non è riuscito a fondersi armoniosamente con i pregiati caratteri del paesaggio storico (Vallerani, 2000; Vallerani, 2012). L’esito di questa omologazione al recente modello di sviluppo non è solo lo stravolgimento della geografia insediativa della pianura, dei fondovalle e della linea di costa, causa prima del degrado ecologico e ambientale dell’intero territorio, ma la dissoluzione del sapiente ordito dei segni grafici e pittografici che facevano del Veneto una delle regioni paesisticamente più armoniose del nostro paese. Allo spreco folle della riproducibilità dei sistemi ecologici più elementari si sono aggiunte l’amnesia diffusa del paesaggio ereditato e il successivo eclissarsi del senso estetico.
L’immagine della bruttezza che più ci offende, perché non ha alcuna legittimità all’interno di un discorso estetico, è quella oggettiva, permanente e irrimediabile, che ci viene offerta nelle tre dimensioni dello spazio urbano e rurale costruiti senza progetto, senza riferimento alle regole genetiche dei luoghi e in palese violazione dell’interesse collettivo.
Un cambio di paradigma rispetto agli insediamenti senza regole si rende oggi necessario anche in considerazione degli effetti negativi che lo spettacolo del brutto provoca nella psicologia di chi lo osserva. Anche se manca una letteratura che puntualizzi il rapporto tra perdita della “bellezza del paesaggio” e disagio, i dati osservabili empiricamente testimoniano in modo inequivocabile che vi è una stretta relazione tra emozioni negative (stato d’ansia, depressione, spaesamento) suscitate dagli sfregi ambientali e conseguente propensione a pensare in negativo. Lo sguardo pessimista diviene dominante con il prevalere di ciò che lo psicologo Aaron Beck definisce «blocco cognitivo». Il blocco cognitivo è uno stato mentale che, agendo in sinergia positiva (incrementale) con la crescente incapacità di distinguere il bello dal brutto e il bene dal male, produce una sorta di “atonia morale” che investe strati sempre più profondi della nostra psiche. L’immersione quotidiana nel brutto crea infatti assuefazione. All’immagine costante del brutto si fa l’abitudine. «Sembra quasi che alla cementificazione dei suoli faccia seguito una progressiva asfaltatura delle menti, una impermeabilizzazione delle coscienze […] e ciò lo si nota soprattutto tra i più giovani [perché in essi all’assuefazione] si aggiungono gli effetti compensativi dell’orgia seducente del consumismo, autentico collante sociale» (Vallerani, Italia desnuda).
Abbiamo una storia delle città italiane, ma non abbiamo una storia dei territori italiani, ossia del contesto geografico che si è sviluppato intorno alle città. Se si introducesse la storia del territorio nelle scuole, gli insegnanti avrebbero a disposizione uno degli archivi più fecondi di antropologia culturale che si possa immaginare. I valori che emergono dall’analisi del patrimonio territoriale servirebbero, infatti, da un lato a rivelare le regole o linee guida di ogni possibile intervento di trasformazione e dall’altro a limitare l’ampiezza delle informazioni quantitative a vantaggio di quelle qualitative del territorio stesso. Attualizzare un’indagine storica interamente ricostruita sui luoghi vuol dire operare una dissezione metodica completa della storiografia ufficiale omologata nei manuali scolastici, una ricomposizione dei saperi che metta capo alla storia dei luoghi come point di départ piuttosto che come point d’arrivée (fatti salvi i risultati prodotti dalla globalizzazione senza regole) dell’indagine storica: l’esatto contrario del metodo d’apprendimento scolastico che si è seguito finora. L’adozione del metodo regressivo, che ribalta quello progressivo dei positivisti, adagiato sulla concezione lineare e rasserenante del progresso, costituisce il lascito forse più cospicuo e la lezione più durevole della “rivoluzione storiografica” degli Annalisti. È, questo, il metodo più raccomandato da Marc Bloch: quello che conta, secondo lui, è innanzitutto la capacità di «osservare e analizzare il paesaggio di oggi», perché «solo l’ultimo fotogramma è intatto» e, a voler ricostruire i tratti sfocati della storia lontana, si rende «necessario anzitutto svolgere la bobina in senso inverso a quello della ripresa»; occorre pertanto procedere dall’avanti all’indietro, à rebours, partendo dai tempi e dai luoghi più vicini a noi, non solo «perché la chiarezza dei documenti [diventa] via via più totale a mano a mano che si percorre in giù il corso del tempo», ma anche perché «a procedere in modo meccanico dall’indietro all’avanti, si corre sempre il rischio di perdere il proprio tempo nel dare la caccia agli inizi o alle cause di fenomeni che, all’esperienza, si rivelerebbero, forse, immaginari» (M. Bloch, Apologia della storia).
Il monitoraggio del territorio come attività di ricerca orientata al recupero del suo patrimonio memoriale e identitario, verifica a ogni passo come e perché i cosiddetti “saperi esperti” elaborati nelle facoltà universitarie si sono via via strutturati estraendo dai luoghi i loro costituenti primari (le regole insediative, l’architettura bioclimatica, l’agricoltura biologica inclusiva del processo rigenerativo del suolo, la relazione non gerarchica ma di complementarità fra città e campagna, l’artigianato locale come alternativa alla produzione seriale, il fiume come risorsa energetica e insostituibile idrovia per il trasporto di persone e merci). Il carattere anfibio dei saperi, prima di tradursi nelle scienze del territorio e nelle scienze della terra, nasce infatti negli spazi del vissuto, nei processi di sedimentazione secolare che fanno capo alla struttura unificante del bacino idrografico e delle comunità rivierasche vissute in simbiosi con esso. I saperi locali vanno rivalutati e riportati alla luce in quanto saperi anfibi, e dunque geneticamente e cognitivamente interconnessi, nei quali comunicano e convivono, grazie alla funzione unificante del fiume, tutte le componenti dell’ecosistema acquatico: la navigazione e la produzione agricola, le attività cantieristiche e la pesca, la portualità e la produzione di energia elettrica, la sostenibilità turistica e le dinamiche insediative.
È all’interno di questo ritrovato orizzonte di senso che i saperi e i mestieri antichi, decontestualizzati e dispersi dalla modernità, possono essere ricontestualizzati e riportati alla loro unità originaria. Ed è in ragione della riscoperta di questa matrice comune che la natura anfibia del paesaggio fluviale, rivelatosi come tale nel processo ricognitivo dei ricercatori, va riprodotta fedelmente nel loro sforzo di riportarla alla luce in tutta la sua valenza originaria. Nessuna parte di un sistema interconnesso, qual è il bacino idrografico, può essere studiato per segmenti, per la stessa ragione per cui ogni asta fluviale va considerata nell’insieme dei sottosistemi idrografici interconnessi, dalle sorgenti alla foce.
A garantire le condizioni di continuità ecosistemica della bioregione veneta, rispetto alla quale il reticolo idrografico costituisce il principale supporto di questa continuità, sono la qualità delle connessioni ecologiche del territorio e la presenza della biodiversità, assunte come invarianti strutturali della stessa bioregione (Magnaghi, La regola e il progetto). Di questa unità ecosistemica fanno parte i corridoi ecologici, le aste fluviali, i laghi, le paludi, le aree verdi, il territorio agricolo, dotato di diversi gradi di valenza ecologica, e le aree urbane, come principali aree di criticità.
L’intero ecosistema dev’essere pertanto studiato e interpretato in tutte le sue componenti antropologiche e geomorfologiche come un “corridoio culturale”, grazie alla presenza non solo di manufatti connessi a specifiche funzionalità idrauliche (le banchine, gli squeri, i mulini, i ponti, le riviere, i natanti), ma anche di residenze signorili, luoghi di culto, case rurali “a schiera”, centri rivieraschi, palazzi di città e quant’altro ne connoti la nascita e l’evoluzione geostorica. Lo studio integrato di queste componenti consentirebbe di individuare gli «elementi gravidi di regole per il progetto» (Magnaghi), non potendosi considerare sufficiente l’insieme di norme urbanistiche per arrestare il degrado e per disincentivare il consumo di suolo. Servirebbe inoltre a restituire forza all’intero territorio come entità fisiografica identitaria, abitativa, produttiva, riconnettendo in una rete di relazioni sinergiche la campagna alla città, la montagna alla pianura, l’intero entroterra al mare. «È questo il compito di una nuova progettualità finalizzata al riequilibrio di assetti geo-economici che hanno, in un recente passato, degradato e sprecato notevoli risorse paesaggistiche e ambientali. In tale prospettiva un ruolo tutt’altro che secondario è stato assolto da istituzioni museali del tutto simili a quella di Battaglia […]» (Vallerni, Tra Colli euganei e Laguna veneta).
Il Museo Civico della Navigazione di Battaglia Terme è uno dei “giacimenti culturali” più importanti d’Italia, «un autentico patrimonio di cultura materiale altrimenti destinato alla dispersione e all’oblio». Il recupero di questo straordinario “giacimento culturale” passa attraverso la redenzione agronomica di vaste aree paludose, in cui le fasi progettuali e i conseguenti esiti fisionomici non riguardano soltanto l’ambito produttivo e insediativo, ma anche i processi di elaborazione simbolica e culturale del territorio da parte delle comunità rivierasche. Sono stati in particolar modo l’escursionismo nautico e le pratiche del turismo itinerante a individuare in questi corridoi fluviali risorse di inaspettata attrattività. «Gli obiettivi e le strategie dei piani territoriali dovrebbero quindi tener conto non solo delle concrete fisionomie idrografiche, ma anche delle non meno trascurabili “geografie mentali”, con cui la popolazione identifica quei medesimi segni d’acqua» (Vallerani, Italia desnuda).
Nella realizzazione del canale di Battaglia si è tenuto conto di quanto potesse contribuire a valorizzare queste tre fondamentali vocazioni che connotano quel centro storico come tipico centro culturale non agricolo: preservare i delicati equilibri fra insediamento umano, ambiente e comunità locale, quasi a voler dimostrare quali e quanti vantaggi possono derivare dalla consapevole ricucitura del secolare rapporto tra comunità e territorio; incrementare la sua funzione di baricentro per i collegamenti nautici tra la laguna e l’intero bacino idrografico del Veneto; valorizzare le relazioni economiche tra Venezia, la più famosa città anfibia del mondo, e il suo entroterra ricalibrando e migliorando tutto l’irradiarsi di relazioni per acque interne con Treviso, Monfalcone, Padova e la linea del Po.
La conca di Battaglia può, pertanto, essere considerata l’apoteosi dell’antropizzazione lungo un corso d’acqua. «È in questo senso che il taglio medioevale del canale di Battaglia […] può definirsi una riviera, vero e proprio “tipo” geografico indicante l’apoteosi dell’antropizzazione lungo un corso d’acqua» (Vallerani, Tra Colli euganei e Laguna veneta). Esso presenta interessanti assonanze con consimili assetti antropici lungo le idrovie delle riviere della Brenta e del Sile. Il suo sito è geograficamente strategico perché consente il passaggio delle imbarcazioni dal canale di Battaglia alla sottostante idrovia in direzione del Bacchiglione e viceversa. Grazie alle numerose intersezioni con alvei di drenaggio posti a quote più basse, costituisce non solo il centro propulsore della rinascita del comprensorio di Battaglia in grado di ridare vita alle vie d’acqua dismesse dal traffico commerciale, ma anche di avere importanti ricadute economiche su vaste aree del territorio veneto (nonostante la spietata concorrenza, a partire dalla metà del secolo scorso, dei trasporti su ferrovia e su strada).
L’idea sottesa al progetto è di aprire un corso d’acqua – il Bacchiglione – a una molteplicità di itinerari di turismo fluviale che vanno non solo verso i centri storici di Padova, Monselice, Este e la riviera del Brenta, ma anche verso quelli orientali di Treviso, Pordenone e il Friuli, compresi quelli di Chioggia e della laguna meridionale, con le successive connessioni verso l’Adige e il Po. Lo scavo del canale rappresenta pertanto uno dei momenti più significativi dell’inserimento di elementi innovativi nelle strutture invarianti del territorio, ossia degli «elementi gravidi di regole» – come direbbe Magnaghi – che consentirebbero oggi, come hanno consentito in passato, di integrare in un progetto unitario gli aspetti paesaggistici e culturali con quelli economici, sia pure limitatamente all’escursionismo nautico e al turismo sostenibile.