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A più riprese e in forma ricorrente governo, regioni e forze politiche attentano all’esistenza dei piccoli comuni italiani prima proponendo l’abolizione dei comuni sotto i 1000 abitanti (1970 comuni), ora colpendo quelli sotto i 5000 (5846 comuni, quasi i tre quarti degli 8101 comuni italiani! ). I motivi sono sempre il contenimento della spesa e le inefficienze funzionali, trattando il sistema delle autonomie locali, sul quale è basato l’assetto costituzionale della Repubblica Italiana, come superfetazioni di strutture burocratiche.
L’obbligo dell’esercizio associato delle funzioni fondamentali (previsto dalla L. 135/2012 “Spending Review 2”), ma ancora di più le spinte e gli incentivi alla fusione dei comuni di minore dimensione demografica, come previsto ad esempio dalla legge regionale toscana n. 68, prefigurano un attacco all’autonomia comunale, che rappresenta invece un elemento essenziale della vita, dell’identità e della partecipazione dei territori e delle comunità locali.
Soprattutto in una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento delle scelte dai luoghi di vita e dalla prevalenza dei poteri economico-finanziari sulle modalità democratiche di governo, i Comuni, intesi come comunità reali degli abitanti e dei patrimoni territoriali che costituiscono i beni comuni (e non come mera appendice amministrativa di partiti e poteri economico finanziari, come sovente avviene), devono essere considerati come la struttura di base dello Stato, l’ossatura viva della democrazia. I Comuni più piccoli in particolare, che governano vari territori soprattutto nelle aree interne, collinari e montane, marginalizzati e trascurati dal processo di sviluppo globale, particolarmente minacciate dai progetti di smantellamento, debbono essere tutelati e considerati come gli ambiti di base e strategici per il futuro dei nuovi equilibri socioeconomici dell’intero paese; funzione evidenziata di recente anche nel documento del ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca (“Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”), secondo cui la valorizzazione delle Aree interne è una delle opzioni strategiche nell’ottica di una necessaria territorializzazione della “politica di sviluppo rivolta ai luoghi”. Tali aree interne, dei piccoli comuni, rappresentano un contesto privilegiato per ripensare stili di vita e modelli di sviluppo capaci di rispondere in modo strutturale alla crisi globale del nostro tempo, innanzitutto ricostruendo i rapporti città/campagna che tanto peso ha avuto nella storia italiana.
La rete diffusa dei Comuni italiani non è una eredità del passato, obsoleta, costosa ed inutile, quindi abrogabile in funzione di necessità contabili del momento. Fin dalle sue origini ogni Comune è stato e continua ad essere luogo di primaria e vera identificazione dei suoi abitanti, di quelli nati al suo interno come di quelli provenienti da fuori. Come dimostrano molti studi e ricerche, tra cui quelli più recenti sulle dinamiche identitarie, da secoli è sul territorio del Comune che si misura e si realizza l’integrazione reale dell’individuo nella società, con la pratica effettiva dei valori dell’uguaglianza e della partecipazione. In una visione di lungo periodo che comunque ci rimanda all’età romana, la suddivisione del territorio in municipia, arricchita ed accresciuta nel medioevo e nell’età moderna da nuove ripartizioni territoriali – le comunità, le universitas, i comuni – costituisce l’elemento primario di identificazione delle nostre popolazioni con i loro territori, la base del senso civico e della partecipazione alla vita collettiva. Unica realtà politica non sovrastrutturale, ma intrinseca, che radica appartenenze, cultura locale, specificità e integrazione in contesti più ampi, regionali o statali, il Comune non può essere ridotto a pura questione numerica, né considerato come realtà meramente burocratico/amministrativa. Il Comune è anzi da rilanciare come cellula vitale della società civile e della vita politica dell’Italia. La civiltà occidentale ci è debitrice di questa forma di governo locale, il cui principio abbiamo esportato in Europa, che l’ha fatta sua e la difende gelosamente. Non a caso la Francia, Stato storicamente centralizzatore per antonomasia, non ha mai toccato l’individualità territoriale e la conseguente esistenza amministrativa dei suoi oltre 36.000 Comuni.
Per molte parti del territorio italiano la perdita del Comune aprirebbe una grave deriva nel campo dei servizi, del popolamento, del capitale sociale e della fiducia nelle istituzioni. Anche se la gestione dei servizi richiede oggi capacità manageriali, i Comuni non sono aziende. Nella nostra cultura le aziende non generano e non mantengono attraverso le generazioni la carica simbolica e identificativa, che ogni nostro Comune, indipendentemente dalla sua entità e dalla sua collocazione geografica, possiede.
Mantenere la ripartizione territoriale dei Comuni significa assumere la nostra storia nella sua interezza, anche come condizione imprescindibile di una concezione del federalismo fondata sui concetti di partecipazione, autonomia e solidarietà, a partire dal municipio e dalla sua capacità di sviluppare forme comuni, intercomunali o sovracomunali di esercizio delle funzioni amministrative e di erogazione dei servizi secondo principi di sussidiarietà e di efficienza. Le unioni dei comuni, ad esempio, previste dalle norme legislative e già adottate in diverse regioni, costituiscono uno strumento utile per svolgere le funzioni e organizzare i servizi in forma associata senza compromettere l’autonomia locale.
Per questo noi intellettuali e studiosi, impegnati da decenni nella ricerca relativa alle problematiche identitarie, ai processi di riconversione economica e alla progettazione di istituti di democrazia partecipativa, nonché nella formazione universitaria, chiediamo al sistema politico nel suo insieme di prendere coscienza del capitale territoriale, sociale, culturale ed economico costituito dai Comuni; quindi di abbandonare definitivamente l’infelice ipotesi di scioglimento/accorpamento dei piccoli Comuni;
chiediamo ai sindaci di non divenire esecutori passivi delle leggi razionalizzatrici e dirigiste, ma di essere fino in fondo interpreti della loro comunità, dei sentimenti e dei bisogni dei territori locali;
chiediamo ai presidente delle Regioni di interrompere gli eventuali processi di fusione in corso e in alternativa di promuovere e incentivare forme di collaborazione e di associazione intercomunale – quali convenzioni, unioni, consorzi, ecc. – senza ledere il principio dell’autonomia comunale, applicando integralmente il principio di sussidiarietà e salvaguardando i piccoli comuni come patrimonio democratico, ambientale ed economico nell’orizzonte della crisi globale che ci attanaglia;
chiediamo ai futuri Governi del Paese di arrestare e invertire il processo di smantellamento e di aggressione della rete istituzionale dei Comuni portato avanti nell’ultimo decennio.
Per il Comitato scientifico della Società dei Territorialisti
Paolo Baldeschi Urbanista, Università di Firenze
Angela Barbanente Urbanista, Università di Bari
Piero Bevilacqua Storico, Università di Roma 1 La Sapienza
Luisa Bonesio Filosofa, Università di Pavia
Paola Bonora Geografa, Università di Bologna
Lucia Carle Antropologa, Università di Firenze – EHESS Parigi
Giorgio Ferraresi Urbanista, Politecnico di Milano
Roberto Gambino Urbanista, Politecnico di Torino
Alberto Magnaghi Urbanista, Università di Firenze
Ezio Manzini Designer, Politecnico di Milano
Ottavio Marzocca Filosofo, Università di Bari
Luca Mercalli Presidente della Società Metereologica Italiana
Massimo Morisi Scienza dell’amministrazione, Università di Firenze
Giancarlo Paba Urbanista, Università di Firenze
Rossano Pazzagli Storico, Università del Molise
Massimo Quaini Geografo, Università di Genova
Gianni Scudo Tecnologia dell’Architettura, Politecnico di Milano
Saverio Russo Storico, direttore del Dipartimento Scienze Umane – Università di Foggia
Giuliano Volpe Archeologo, Rettore dell’Università di Foggia