Cassego è una frazione dell’Alta val di Vara (nominata “valle del biologico”), a circa 10 km da Varese Ligure, Liguria (di Levante) profonda. Qui, il mondo rurale che ha resistito e resiste all’abbandono e alle logiche globali ha un portavoce: Sandro Lagomarsini, un sacerdote da 43 anni “sul campo”. Don Sandro ha dedicato la vita a progetti educativi e culturali, ha fondato una scuola popolare e «un museo contadino come chiave di lettura del territorio e degli abitanti», recita il sito ufficiale della frazione.
Ma la sua Cassego è una Barbiana della quale il sacerdote, instancabile nella sua attività di “maestro” e intellettuale critico, ha messo al centro, insieme alle anime, la terra che quelle anime abitano e lavorano.
Dal suo osservatorio “minimo” – Cassego ha oggi 45 abitanti: erano circa 165 a metà anni Sessanta – don Lagomarsini ha fatto una lettura molto critica delle risposte date a livello politico e amministrativo ai problemi che hanno attraversato il mondo della montagna appenninica dal dopoguerra, a cominciare dai parchi regionali e dalle filosofie e politiche ambientaliste dominanti: «i recinti sono per le vacche», ha sempre proclamato.
L’affermazione, solo apparentemente provocatoria, sintetizza una riflessione più generale su come sono state affrontate in Italia le questioni della ruralità montana, determinate da una visione, tradotta in rigide norme, «che svaluta e impoverisce la ricchezza e la varietà degli ambienti reali e degli elementi che li compongono». In questa discussione che dura da anni Lagomarsini ha coinvolto con la popolazione locale e gli amministratori molti studiosi e rappresentanti del mondo mediatico (al quale appartiene lui stesso, scrivendo su «L’avvenire»).
In una prossima occasione varrà la pena di entrare nel merito e dare pienamente conto ai nostri lettori di analisi e prospettive che hanno un valore non soltanto locale. Qui mi limito a ricordare il più recente incontro: Per un pugno di lenticchie. Dialoghi, immagini, musica (Cassego, il 14 e 15 aprile 2012). Il programma, incentrato sul complesso delle tematiche affrontate da don Sandro, ha preso spunto da due documenti degli inizi: la trascrizione delle interviste effettuate nel 1970 dal regista Gianfranco Albano e da Natalia Aspesi per il programma TV “AZ” e il documento del 1974 in cui la scuola popolare di Cassego verificava in un’assemblea popolare alcune proposte alternative agli studi e alle politiche regionali.
Nulla degli spazi (la “sala del camino” della colonia montana), delle presenze (studiosi e abitanti che affollavano la sala), delle modalità (informali) in cui si è svolta l’iniziativa rimanda alla ritualità di incontri scientifici o politici ingessati, e il dibattito, oltre che coinvolgente dal punto di vista civile, è andato oltre il bilancio di un quarantennio di vita spesa su uno degli ambienti appenninici non a caso rimasti vitali.
L’iniziativa si è svolta nel quadro della settimana del “Field Course” dei docenti e degli studenti dell’Università di Nottingham presenti ogni anno, grazie alla collaborazione con il Laboratorio di Archeologia e Storia Ambientale dell’ateneo genovese e con don Sandro, per fare ricerca ecologico-storica sul terreno. Conducevano la discussione, animata dai frequenti interventi dalla sala, Diego Moreno, Massimo Quaini e Manlio Callegari dell’Università di Genova, quindi Gianfranco Albano (che ha ricostruito la vicenda dell’intervista citata non andata in onda perché troppo esplicita circa la realtà della montagna e che ha ricordato come l’incontro con questa realtà cambiò profondamente la giovane Aspesi) e, ovviamente, Lagomarsini.
Ripercorrere la storia di questa esperienza ha permesso di stringere su molti problemi che investono il mondo rurale della montagna: la politica europea e i SIC; la critica e la battaglia sui parchi e la loro gestione; la “Valle del biologico” commercializzato con una discreta grancassa mediatica (ma «fatto di materie prime importate!»); la discussione fra chi ha fiducia nei presidi Slow Food e in “Terra madre” (Quaini), e chi considera che adattarsi a questi protocolli significa già omologare le produzioni (Moreno); i limiti dell’ancora troppo modesto ritorno alla terra da parte di giovani agricoltori ecc.
L’insieme di questi problemi non ha attenuato, anzi, ha rafforzato la diffusa convinzione della necessità di un’inversione di tendenza, di cui esistono segnali che ciascuno, dalla propria postazione di ricercatore o di operatore, deve raccogliere.
Luisa Rossi, Sezione ligure della Rivista SdT